DANNI IN MATERIA CIVILE E PENALE - Cass. civ. Sez. lavoro, 10-01-2018, n. 330

DANNI IN MATERIA CIVILE E PENALE - Cass. civ. Sez. lavoro, 10-01-2018, n. 330

In tema di dequalificazione del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo - Presidente -

Dott. CURCIO Laura - Consigliere -

Dott. BALESTRIERI Federico - Consigliere -

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere -

Dott. AMENDOLA Fabrizio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 477/2013 proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AVENTINA 3/A, presso lo studio dell'avvocato SAVERIO CASULLI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PIETRO EMILIO ANTONIO ICHINO, GUGLIELMO BURRAGATO, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell'avvocato SERGIO VACIRCA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato VINCENZO PAOLILLO, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 934/2012 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 09/10/2012 R.G.N. 357/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/09/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

udito l'Avvocato SAVERIO CASULLI;

udito l'Avvocato SERGIO VACIRCA.

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 9 ottobre 2012, ha confermato la decisione di primo grado nella parte in cui aveva accertato che C.S., quadro direttivo di secondo livello, era stato assegnato a mansioni inferiori dal maggio 2005 all'ottobre 2008 e condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena Spa al pagamento di 40.000,00 Euro, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno, e, su specifico gravame del lavoratore sul punto, ha parzialmente riformato la prima pronuncia riconoscendo che le dimissioni rassegnate il 6 ottobre 2008 dal dipendente in conseguenza del perpetuarsi del demansionamento erano sorrette da giusta causa.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con sei motivi. Ha resistito il C. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., di norme della contrattazione collettiva per i Quadri Direttivi ed il personale delle Aree Professionali dipendenti delle aziende di credito, finanziarie e strumentali, nonchè della L. n. 190 del 1985, art. 2, comma 1, per avere la Corte territoriale ritenuto l'intervenuta dequalificazione del C. a partire dal 1 maggio 2005 sino al 6 ottobre 2008. Si sostiene che il sindacato giudiziale debba essere limitato al solo confronto oggettivo tra le mansioni svolte dal lavoratore prima e dopo il loro mutamento, sulla scorta delle classificazioni del CCNL applicabile, al fine di accertare l'equivalenza delle stesse, mentre i giudici del merito avrebbero valorizzato elementi del tutto estranei, "quali la ritenuta temporaneità dell'assegnazione e la pretesa mancanza di specifica preparazione professionale dei lavoratori sottoposti". Si lamenta altresì che sarebbe anche stata erroneamente interpretata la contrattazione collettiva ed aziendale di riferimento.

Con il secondo motivo si denuncia "insufficiente motivazione" ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere "la Corte di Appello di Genova omesso di accertare il contenuto delle mansioni svolte dal Signor C. nel periodo dal 16 ottobre 2006 al 6 ottobre 2008, nonchè le modalità del loro svolgimento".

I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto attinenti alla modifica in peius delle mansioni assegnate al lavoratore in violazione dell'art. 2103 c.c., nella formulazione all'epoca vigente, come accertata in entrambi i gradi di merito, non possono trovare accoglimento.

Essendo manifesta l'inammissibilità del secondo mezzo - atteso che lamenta una "insufficiente motivazione" non più sindacabile da questa Corte nel vigore del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014 - anche il primo motivo, nonostante la veste solo formale della denuncia di erronea e falsa applicazione di norme di diritto e di contratto collettivo, nella sostanza tende ad una rinnovazione dell'apprezzamento compiuto dai giudici del merito in ordine al fatto che il C., nel periodo controverso, sia stato adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente espletate, invocando così un nuovo giudizio di equivalenza precluso a questo giudice di legittimità perchè giudizio "che è tutto interno al merito della decisione" (in termini, tra molte, v. Cass. n. 13414 del 2013, resa tra le stesse parti e relativa al demansionamento consumatosi in periodo precedente e dove condivisibilmente si richiama a sostegno Cass. SS.UU. n. 25033 del 2006).

Invero questa Corte costantemente insegna (tra le altre v. Cass. n. 14496 del 2005 e Cass. n. 8589 del 2004) che la valutazione della sussistenza di un'ipotesi di dequalificazione in violazione dell'art. 2103 c.c., si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se - come peraltro accaduto nella specie - congruamente motivato.

2. Con il terzo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in punto di asserito danno derivante dal preteso inadempimento", assumendo che i giudici del merito avrebbero ritenuto il danno alla professionalità insito nel fatto stesso della dequalificazione.

Con il quarto motivo si denuncia ancora la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè "contraddittoria motivazione sul punto decisivo della decisione impugnata relativo alla pretesa compromissione del valore di mercato del lavoro del Sig. C.", nonostante questi avesse trovato nuova occupazione appena dopo le sue dimissioni.

Il Collegio giudica detti motivi, che possono essere scrutinati insieme per reciproca connessione, infondati.

Come statuito da questa Corte (per tutte v. Cass. n. 12253 del 2015) l'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale.

Innanzi tutto l'inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (tra le altre v. Cass. n. 11045 del 2004; Cass. n. 14199 del 2009). Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti.

Infatti questa Corte, a Sezioni unite (sent. nn. 26972, 26973, 26974, 26975 dell'11 novembre 2008), dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona, ha considerato che l'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. Lo stesso Collegio dedica adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile; descrive quale lesione di tale diritto proprio "i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa".

Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità - per non avere il bene persona un prezzo - del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice (ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.).

Chiarita l'astratta potenzialità lesiva dell'assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che la produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale: dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo (Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006).

Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione - in ipotesi anche equitativa sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001; altresì: Cass. n. 9138 del 2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003; Cass. n. 10268 del 2002; Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999).

I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass. n. 13546 del 2006).

Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l'esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per sè essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; conforme, più di recente, Cass. n. 18778 del 2014).

In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU.. n. 6572/2006 cit.).

Nella specie la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, confermando il giudizio del primo giudice, avuto riguardo "alla significatività della dequalificazione anche alla luce dell'elevato inquadramento dell'attore, la continuità, il progressivo accentuarsi e la lunga durata", non assumendo rilievo la successiva occupazione "ignorandosi condizioni e prospettive del nuovo rapporto".

Invero il divario rispetto ai compiti di responsabile di un'agenzia bancaria in precedenza assolti dal C., poi adibito "alla preposizione di un gruppo (privo di specifica esperienza) destinato a scomparire e tenuto in piedi per funzioni di parcheggio", sconfinante nella totale erosione delle funzioni in quanto "collocato in una stanza da solo, privo di computer per mesi e... di cose da fare", unitamente alla durata pluriennale della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dai giudici del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità del lavoratore, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito allo stesso di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi - per dirla con le parole di SS.UU. n. 26972/2008 citata - "attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore".

In definitiva si tratta di un percorso motivazionale che, senza discostarsi da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle argomentazioni, sorregge a sufficienza l'esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente muove.

3. Con il quinto motivo del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto la sussistenza di una giusta causa di dimissioni, nonostante le stesse fossero state rassegnate "circa tre anni dopo l'inizio del lamentato demansionamento", in contrasto con il disposto normativo che postula una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Con il sesto motivo si lamenta "omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia relativo alla gravità dell'inadempimento datoriale addotto dal Sig. C. a giustificazione delle sue dimissioni per asserita giusta causa", ai sensi dell'art. 360 c.p.p., comma 1, n. 5.

Anche tali censure - palese l'inammissibilità del sesto mezzo di gravame articolato con riguardo ad una formulazione che richiama la "omessa... motivazione... circa un punto decisivo della controversia" risalente ad una versione di testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, addirittura precedente al D.Lgs. n. 40 del 2006, senza tenere conto della novella del 2012 e dell'interpretazione ad essa offerta dalla Sezioni unite civili sopra citate - vanno respinte.

Infatti la valutazione della idoneità della condotta del datore di lavoro, sotto il profilo del demansionamento, a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c., si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 14496 del 2005; Cass. n. 8589 del 2004) ed attualmente il sindacato sulla motivazione incontra gli ulteriori limiti imposti dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qui applicabile ratione temporis.

Ancora di recente si è ritenuto che "la durata della dequalificazione" sia "più che sufficiente a giustificare le dimissioni del dipendente, in presenza di un palese inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro" (Cass. n. 18121 del 2014).

Inoltre è stata ammessa la sussistenza di dimissioni per giusta causa anche quando il recesso non segua immediatamente i fatti che lo giustificano (Cass. n. 2048 del 1985, Cass. n. 2492 del 1997; Cass. n. 24477 del 2011) e si è espressamente affermato che anche la valutazione concernente la sussistenza della tempestività della reazione delle dimissioni alla illecita condotta datoriale si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 10713 del 2010). In tale ultima pronuncia questa Corte ha ritenuto coerente ed immune da vizi logici la motivazione della sentenza impugnata che aveva rilevato come il comportamento inadempiente della parte datoriale non si fosse concretizzato in un fatto unico esauritosi in un preciso e definito momento temporale, bensì in una "condotta continuativa nel tempo, la cui valenza di gravità ha subito un costante crescente andamento", con il conseguente "progressivo aggravamento dell'illecito ed il superamento della tollerabilità di tale situazione".

In analoga prospettiva si è affermato che "il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima, quale il demansionamento del lavoratore accertato dal giudice di merito, non può essere inteso nè come acquiescenza del lavoratore alla situazione imposta dal datore (cui compete il potere organizzativo del lavoro), essendo indisponibili gli interessi sottesi ai limiti allo ius variandi datoriale, nè come prova della sua tollerabilità, potendo essere proprio la protrazione della situazione di illegittimità rilevante per fondare le ragioni che giustificano le dimissioni" (Cass. n. 13485 del 2014; conf. Cass. n. 16896 del 2015).

Anche nel caso che occupa il Collegio la Corte di Appello ha posto in evidenza che si trattasse di "un comportamento inadempiente non istantaneo ma protrattosi nel tempo ed aggravatosi progressivamente", divenendo intollerabile al punto da "non consentire la prosecuzione sia pure provvisoria del rapporto... in presenza di una patologia ansioso-depressiva di un lavoratore che aveva già avuto una tormentata, analoga vicenda giudiziaria con la banca e che ha visto deluse le sue richieste, fatte attraverso il proprio legale, di assegnazione a compiti confacenti al suo inquadramento; patologia cronica sì ma il cui grave riacutizzo è stato certificato nel giugno 2008".

Dal che discende coerente, anche in questo caso, l'infondatezza delle scrutinate doglianze.

4. Conclusivamente il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento di Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2018


Avv. Francesco Botta

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